Il disconoscimento di paternità è l’azione giudiziaria volta ad accertare e dichiarare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre.
E’ disciplinata dagli artt. 243 bis e seguenti c.c.
L’azione di disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio può essere esercitata dal marito, dalla madre e dal figlio medesimo.
La sola dichiarazione della madre non esclude la paternità.
I termini
La madre può proporre l’azione nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio, ovvero dal giorno in cui è venuta a conoscenza dell’impotenza a generare del marito, al tempo del concepimento.
Il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; se prova di aver ignorato la propria impotenza a generare ovvero
l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza.
Se il marito non si trovava nel luogo in cui è nato il figlio il giorno della nascita il termine di un anno decorre dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare se egli ne era lontano. In ogni caso, se egli prova di non aver avuto notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia.
Nei casi in cui il marito ha diritto al disconoscimento, l’azione non può essere, comunque, proposta oltre cinque anni dal giorno della nascita.
Per il figlio, invece, l’azione è imprescrittibile.
Può essere proposta dal figlio che ha raggiunto la maggiore età; qualora il figlio sia ancora minorenne può essere promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni, o del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratta di minore di età inferiore.
Possibilità per ascendenti e discendenti
Se il presunto padre o la madre titolari dell’azione di disconoscimento della paternità sono morti senza averla promossa, sono ammessi ad esercitarla in loro vece i discendenti o gli ascendenti.
Chi partecipa al processo?
E’ prevista la partecipazione necessaria del presunto padre, della madre e del figlio.
Per i figli nati da coppie non sposate?
C’è l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, disciplinata dall’art. 263 c. c.
Il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto o da chiunque vi abbia interesse.
L’azione è imprescrittibile riguardo al figlio.
I termini
L’azione di impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno che decorre dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Se l’autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza; nello stesso termine, la madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa a provare di aver ignorato
l’impotenza del presunto padre. L’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento.
L’azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Si applica l’articolo 245.
L’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto quattordici anni, ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore che abbia validamente riconosciuto il figlio, quando si tratti di figlio di età inferiore.
Il riconoscimento può essere impugnato anche per violenza, dall’autore del riconoscimento entro un anno dal giorno in cui la violenza è cessata.
La ratio
La ratio dell’odierna azione è quella di conformare alla realtà oggettiva quella giuridica attraverso l’accertamento della divergenza tra la genitorialità biologica e quella dichiarata con l’atto di riconoscimento.
L’art 263 cc è volto a tutelare gli interessi del minore conferendo certezza ai rapporti familiari ed a garantire stabilità al soggetto riconosciuto.
Dopo la riforma radicale delle norme sull’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, la valutazione dell’interesse del minore in questi procedimenti è stata operata dal legislatore con la prescrittibilità del diritto al promovimento dell’azione (salvo che per il figlio stesso per il quale l’azione è imprescrittibile).
Secondo il nuovo principio affermato in Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272, nel procedimento di impugnazione del riconoscimento, il giudice è chiamato a valutare non solo la verità biologica dello status ma anche l’interesse del minore, attraverso una valutazione che potrebbe condurre a non accogliere la domanda. Infatti, pur dovendosi riconoscere – afferma la Corte - un accentuato favore dell'ordinamento per la conformità dello status alla realtà della procreazione, va escluso che quello dell'accertamento della verità biologica e genetica dell'individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento. Ed invero, l'attuale quadro normativo e ordinamentale, sia interno, sia internazionale, non impone, nelle azioni volte alla rimozione dello status filiationis, l'assoluta prevalenza di tale accertamento su tutti gli altri interessi coinvolti. In tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale si palesa, dunque, sempre di più la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore.
Secondo l’opinione di alcuni commentatori vanno considerati, però, anche altri fattori, come l’assenza di rapporti con il genitore che ha riconosciuto il minore.
Si valuterà se il genitore legale ha contribuito alla crescita del piccolo, alla sua educazione, al suo mantenimento, all’adempimento di quel dovere di assistenza materiale che deriva dal rapporto giuridico o di fatto di filiazione e a rappresentare per lui una figura di riferimento.
Pertanto, il bambino non patirebbe alcun disagio non conoscendo praticamente - si può dire - il padre.
Quanto al cognome, segno distintivo della sua identità personale, si guarderà all’età del bambino e alla sua vita di relazione: se è ancora troppo piccolo e non ha ancora una vita di relazione non ci saranno grandi problemi.
La prova
La prova regina è il test del DNA che consentirà di accertare se tra il (presunto) padre ed il/la (presunto/a) figlio/a vi è un legame biologico.
L’incarico viene affidato ad un medico genetista che provvederà ad effettuare il prelievo di saliva dei due soggetti interessati, comparando il DNA dell’uno con quello dell’altro.
Il rifiuto ingiustificato a sottoporsi al test del DNA, ai sensi dell’art. 116 c. p. c., è suscettibile di essere valutato come ammissione (Cassazione civile sez. I – 14/06/2019, n. 16128).